martedì 17 agosto 2010

Tonaca

di Vincenzo Cerami

È un po’ di tempo che la Chiesa si sta strenuamente difendendo da una campagna mediatica che ha acceso i fari sul fenomeno delle attività e delle aberrazioni erotiche del clero. E non si tratta soltanto degli orrori della pedofilia, ma anche di festini a luci rosse, orge e sortite clandestine d’ogni genere. Dismessa la tonaca e indossati gli abiti civili, molti preti passano dal sacro al profano in men che nulla. Chiedo a un mio amico, che scrive su questo giornale, don Filippo Di Giacomo, se non sarebbe più opportuno, per lui e per i suoi allegri confratelli, rinunciare a mettersi in borghese e tornare a vestire l’abito lungo del prete. Non c’è da imbarazzarsi a indossarlo, anzi, sarebbe un segno di rispetto per la comunità cattolica e avrebbe anche il potere di eliminare ogni ambiguità. È difficile riconoscere un sacerdote in un tizio in camiciola: siamo in presenza di un inganno, per lo meno sul piano semiologico. L’amico Di Giacomo dovrebbe buttare alle ortiche i suoi abiti “laici” e lanciare un appello affinché a tutti i preti del mondo sia vietato di indossare altro che non siano due tonache: una di lana per l’inverno e una di cotone per l’estate. Non servirà certo a scoraggiare i duri e puri indemoniati dell’eros, ma farà da margine all’espansione delle mille, piccole depravazioni quotidiane. In genere si dice che “l’abito non fa il monaco”, ma per la Chiesa non è così: l’abito deve fare il monaco. Il cattolicesimo, come altre religioni, vive di simboli, di riti, di castità, di valori fondanti e irrinunciabili, di fedeltà alla dottrina, di rigorosa obbedienza alle regole sacerdotali. La tonaca, alla semplice vista, ci trasmette tutto questo: molto spirito e poca carne. Un prete che sostituisce la tonaca con un abito comune è come se rinunciasse allo spirito.
© Copyright L'Unità, 15 agosto 2010

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