giovedì 25 febbraio 2010

Lo “schiaffo” del missionario ai confratelli tentati dal carrierismo
di Paolo Rodari

“Il carrierismo nel sacerdozio è senz’altro un male. Un male che c’è sempre stato ma che oggi sembra avere proporzioni più vaste. Altrimenti non si spiegherebbero i continui richiami di Benedetto XVI in questo senso: ‘E’ una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella chiesa’, ha ricordato recentemente il Papa”. Massimo Camisasca, superiore generale della Fraternità San Carlo – più di cento preti missionari e una quarantina di seminaristi –, per anni portavoce di Comunione e liberazione in Vaticano, parla col Foglio a pochi giorni dall’uscita nelle librerie del suo ultimo lavoro: “Padre. Ci saranno ancora sacerdoti nel futuro della chiesa?” (San Paolo). Uno scritto dedicato ai preti, come uno “schiaffo” che Camisasca dà alla sua categoria perché, l’ha scritto nella prefazione al volume il segretario della Congregazione per l’educazione cattolica, Jean-Louis Bruguès, “il pronostico è cupo, ma preciso: sono molti i sacerdoti che, in Europa e nell’America del nord, hanno perso il gusto della loro vocazione. La loro vita attraversa gravi difficoltà: la solitudine pesa, il rischio di abbandono li minaccia. Che fare? La risposta è semplice, evidente e nello stesso tempo terribilmente audace: una riforma”.Un pronostico cupo, dati alla mano, quello delle vocazioni sacerdotali: in Italia, nel 1978, i preti diocesani erano 41.627, nel 2006 si erano ridotti a 33.409, il 25 per cento in meno. Anche i sacerdoti appartenenti a ordini religiosi sono in calo: da 21.500 a 13.000, il 40 per cento in meno. Un calo che riguarda un po’ tutta l’Europa e che in certi paesi (come la Francia, il Belgio e l’Olanda) ha proporzioni drammatiche. Certo, non c’è solo il carrierismo a influire negativamente sulla vocazione sacerdotale. C’è anche dell’altro, eppure “la tentazione” – come l’ha definita il Papa – del potere e della carriera sono un male oggi evidente. Spiega Camisasca: “Ritengo che il carrierismo altro non sia che un sintomo della crisi che sta investendo il sacerdozio oggi: spesso la carriera è una delle tante modalità tramite le quali si cerca di coprire l’insoddisfazione per la propria vocazione. Un prete soddisfatto, un prete realizzato, non ha vuoti da riempire attraverso il potere”.Camisasca non offre ricette per supplire alla crisi vocazionale dell’oggi ma dà delle indicazioni per uscirne. Indicazioni che sono un ritorno all’essenziale, a ciò di cui la vita di un prete deve essere fatta perché sia piena: silenzio, preghiera, liturgia, messa, studio, vita in comune, amicizia, castità e missione. Tante cose, ma il contrario dell’“attivismo: una delle minacce più insidiose per la vita del prete”. “L’attivismo – scrive Camisasca – è un’azione di superficie: vede dei problemi, avverte dei bisogni, cerca di rispondere. Spesso il prete che vive così si disperde in una molteplicità di direzioni e di opere”. E ancora: “Dentro l’attivismo, spesso inconsapevolmente, si nasconde l’illusione di salvare gli altri attraverso il nostro ‘fare’. La carità, invece, ci spinge a entrare nell’azione di Dio, a diventare collaboratori di un’opera che ci precede e ci supera”.Benedetto XVI l’ha detto nella notte di Natale che per ogni uomo “la liturgia è la prima priorità. Tutto il resto viene dopo”. Occorre “mettere in secondo piano altre occupazioni, per quanto importanti esse siano, per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo”. E forse questo è anche il cuore del messaggio che Camisasca vuole dare nel suo libro: oltre l’attivismo, oltre il carrierismo, oltre le lotte di potere sempre presenti nella chiesa cattolica, c’è l’essenziale: una vita sacerdotale riempita da Dio, dal suo silenzio, dalla preghiera. Che poi è probabilmente ciò che affascina del prete. Ciò che ha portato, ad esempio, Chesterton a scrivere di “Padre Brown”, Marshall di “Padre Smith”, Bernanos del suo “Curato di Campagna”.
Pubblicato sul Foglio martedì 16 febbraio 2010

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