di don Filippo Di Giacomo
Il 28 giugno del 2007, il cardinale Bertone annunciandolo, aveva messo le mani avanti. Nell’avvertire il mondo cattolico dell’imminente «motu proprio Summorum pontificum», la legge con la quale Benedetto XVI liberalizzava la celebrazione della messa secondo il messale promulgato da Giovanni XXIII nel 1962, il segretario di Stato vaticano avvisava che: «la forma liturgica pre-conciliare è una grande ricchezza per tutta la Chiesa». Sembra che, neanche quella volta, il primo collaboratore del Papa sia stato molto ascoltato. Infatti, allo scadere dei tre anni di vigenza del motu proprio, ciò che si raccoglie nella messe di discussioni che hanno accompagnato la nascita e la vita del documento è il diffuso sospetto che la decisione ratzingeriana sia stata tutta maturata all’interno di una teologia aristocratica, benevolmente viziata da un’opzione estetico-culturale. D’altronde, il 15 aprile del 1997, presentando due suoi libri, l’allora prefetto della dottrina della fede sembrava essersi guadagnato i gradi di capofila di questa tendenza teologica dichiarando che la liturgia del post Concilio Vaticano II «ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere solo tragiche. Si è fatto a pezzi l’edificio antico e se ne è costruito un altro».
Tanto è bastato per far pensare a tutto l’orbe mediatico che Benedetto XVI (che tra l’altro, è stato fatto cardinale da Papa Montini) rimettesse totalmente in discussione gli stilemi di una riforma liturgica, operata dal Concilio Vaticano II che, secondo le parole di Paolo VI, era stata attuata per connettere l’intero popolo di Dio «a una sorgente fecondissima di civiltà e soprattutto di bellezza». Le future decisioni sul prosieguo delle norme fin qui protette con il motu proprio Summorum pontificum rischiano di far riapparire il Papa come “il grande incompreso” da parte dei suoi confratelli vescovi. Anche se paradossale, il fatto non è per nulla strano. I vescovi, come il resto del mondo, hanno iniziato a conoscere Joseph Ratzinger solo qualche giorno prima della sua elezione. Quando è uscito dal cono d’ombra di Giovanni Paolo II, è apparso come il pastore gentile capace di dare senso all’immane autoconvocazione del popolo cattolico accorso intorno alla salma di Giovanni Paolo II. Ratzinger che parlava a nome di tutti, guardando il cielo è stata un’immagine gradita, apprezzata ma, come hanno dimostrato l’equivoco di Ratisbona e gli altri presunti incidenti di percorso del suo pontificato, non compiutamente memorizzata. Forse perché, appena diventato Benedetto XVI, il peso dei suoi libri e dei suoi articoli teologici, peraltro spesso mal letti e peggio interpretati, gli è stato subito caricato sulle spalle.
La liturgia del post-Concilio ci ha permesso di vedere, sull’altare pontificale di Giovanni Paolo II, rappresentazioni dell’intero caleidoscopio di lingue e di culture dell’orbe cattolico. Su quello di Benedetto XVI ci viene spiegato che esse contenevano tutte qualcosa di più profondo anche degli irripetibili gesti del grande Papa polacco. E proprio perché testimoniati così generosamente dal cristiano Karol Wojtyla, quel “qualcosa” (per i distratti: si chiama Gesù Cristo) va visto, riconosciuto e testimoniato.
Saper usare il messale e la liturgia come sono stati consegnati alla Chiesa dal Concilio è - e se l’intento riesce lo sarà di più - una cosa seria per il cattolicesimo contemporaneo, poiché avrà ricadute evidenti anche sul suo modo di essere presente nel mondo. In fondo, al motu proprio Summorum pontificum possono essere riconosciuti, nei suoi tre anni di vita, almeno due benefici. Il primo: ha permesso a molti cattolici di comprendere che la vera “scopa ratzingeriana” era la sua serena immagine pastorale ai tempi della sede vacante. E dopo più di un lustro dalla sua elezione a Papa, tra coloro che hanno avuto modo di seguirlo durante tutte le sue apparizioni pubbliche inizia a circolare il convincimento che la riforma ratzingeriana sia già opera all’interno della Chiesa grazie alla sua ars celebrandi, ai canti che sta reintroducendo nello spazio liturgico, alle omelie con le quali tenta di recuperare alla fede cattolica la sua natura di “controcultura”. Che si esprime anche con una liturgia ricca di antitesi e di contrapposizioni che parla di vita alla morte, di acqua al deserto, di identità all’alienazione, di futuro al cupio dissolvi parossistico della nostra modernità. La seconda considerazione che si impone riguarda il “popolo di Dio”, una realtà che per Papa Benedetto non esiste come acquisita, ma si costruisce grazie ad un’azione pastorale animata da persone e strutture che condividono una chiara prospettiva religiosa. Oggi, forse, questa sembra un’ingenuità. In futuro, è probabile che la chiameremo “profezia”.
Fonte: L'Unità 19 agosto 2010